CONFESSIONI PERICOLOSE
di Francesco G. Lugli
«Padre mi perdoni. Mi perdoni perché ho peccato.» La voce mormorata si distendeva nel chiuso del confessionale con vellutata dimestichezza. Una fragranza vocale dai retrogusti aspri.
«Dimmi figliolo, in cosa hai peccato?» Lo chiese distrattamente, senza lasciarsi affascinare dal tono dominante.
«Ho contravvenuto volontariamente a uno dei comandamenti, padre.» Non aveva l’aria di uno sfogo, ma più di una comunicazione di servizio. Più dovuta che sentita.
«Quale figliolo?» La sua attenzione iniziava a risvegliarsi sorniona, senza fretta, stuzzicata dai raggi di un sole mellifluo filtrato dai rosoni vetrati della chiesa.
«Non uccidere¦ padre.»
Ora il sacerdote era tutto orecchi. Le pupille, cariche di curiosità , mulinarono in tandem verso la voce.
«In che senso hai contravvenuto?» Don Antoin corrugà la fronte, avvicinandola alla fitta scacchiera di legno stagionato che lo divideva dall’ombra peccatrice in attesa di assoluzione.
«Nel senso che ho ucciso, padre.» Parlava sottovoce, ma le parole furono una schioppettata. La chiesa era deserta, le diciotto e quaranta sono un orario strano per professare i peccati. A quell’ora si pensa allo sport, all’aperitivo, alla cena, alle ultime cartucce di shopping da sparare in qualche negozietto o, vista la crisi, in qualche centro commerciale. I peccati possono sempre aspettare.